Nel numero di Famiglia Cristiana, in edicola da giovedì 15 a mercoledì 21 dicembre, tre pagine dedicate a SON, con immagini e voci di tutti i protagonisti di “Abitiamo il futuro”.
QUI DI SEGUITO IL TESTO DELL’ARTICOLO:
Un villaggio della cura, intesa come care ovvero interessarsi all’altro, predersi cura dell’altro e in cui abitare il futuro. È questa «l’ultima follia della carità» – come lui stesso ama definirla – di don Virginio Colmegnaper vent’anni presidente della Casa della Carità a Milano. Dal nome emblematico Son, ovvero “figlio” in inglese, ma anche come l’acronimo di “speranza oltre noi”. «Un villaggio solidale dove costruire il “dopo di noi” durante noi» spiega Colmegna «una nuova avventura in questa fase della vita caratterizzata anche per me dalla fragilità».
Insieme e intorno a lui tante famiglie segnate dalla disabilità che hanno pensato e sognato questo spazio. La scintilla è stata la domanda di Antonio, il figlio di Luciano Scotuzzi, presidente di Son, scomparso prematuramente un anno e mezzo fa. «Un giorno ci ha chiesto: “quando tu e la mamma sarete morti chi mi guarda?”. Ho condiviso l’interrogativo con gli Amici della Casa della Carità, di cui io e mia moglie Mariateresa facevamo già parte e la risposta è stata questo nuovo modo di abitare».
Tre nuclei di case con un appartamento corrispondente per ospitare, vicino ma automo, il proprio figlio con disabilità e cominciare a immergerlo in un tessuto di relazioni che sopravvive alla scomparsa dei genitori. Mariateresa aveva ereditato dai suoi una cascina a duecento metri dalla Casa della Carità, nella periferia nord di Milano, e ha scelto di destinare la sua parte al progetto. I lavori sono durati un paio di anni e oggi finalmente è ora di entrare. Nel frattempo la vita ha avuto il sopravvento e chi ha collaborato al progetto ha preso altre strade. Luciano e la moglie, per esempio, essendo mancato il figlio non andranno più a vivere lì «sarebbe riaprire ogni giorno una ferita mai guarita».
C’è chi, invece, come la famiglia Recalcati ha deciso di donare esperienza, sensibilità e competenze alla causa. Il primo contatto è avvenuto tramite Elena, la loro quarta figlia con sindrome di down, che già conosceva don Virginio. A papà Fabio, che è tesoriere dell’associazione, e a mamma Elisabetta, Colmegna ha chiesto di animare anche spiritualmente il luogo. «Perché ci siano legami che precedono l’abitare, che vanno costruiti con una pizzata o un momento di preghiera» racconta Elisabetta. «Di essere un riferimento spirituale anche con il centro d’ascolto gestito da me, Cristina Sampietro e Carla Gaviraghi; chiamato “Ti ascolto per condividere”, dove accogliere e sostenere le fatiche delle famiglie in dialogo costante con le istituzioni e i soggetti in grado di dare risposte».
Ed Elena? Quando ha visto la cameretta con l’oblò è rimasta rapita. «Mi piacerebbe vivere qui con i miei genitori, vicini ma non insieme. Avere la mia autonomia anche se già adesso vado a fare la spesa da sola e prendo i mezzi». Oltre a essere campionessa nazionale 2017 di Baskin. «Sarebbe bello un domani organizzare, con la parrocchia qui vicino di Gesù a Nazareth, una giornata conviviale tra normodotati e disabili» aggiunge mamma Elisabetta. «L’idea futura è di un’apertura diurna con laboratori per connettere la vita di Son al territorio. L’auditorium sarà il luogo in cui creare momenti di partecipazione».
Marco pure, 55 anni, che lavora in un hotel della stazione Centrale, sogna il suo abitare futuro lì con mamma Liliana. «Ringrazio don Virginio che mi ha dato il coraggio di andare. Mi piace l’idea che ci siano persone a cui voglio bene con cui invecchiare. Porterò i dischi delle opere di lirica, patrimonio di mio padre, di cui sono appassionato. Ma… non voglio la lavastoviglie e, quando non ci sarà più mia madre, vorrei qualcuno che si occupasse di me».
Parola chiave di questo cammino “la speranza”. «Un dono» spiega don Virginio «che è affidato a una comunità di donne, uomini, bambini, che vogliono testimoniare come la comunione tra persone e famiglie – nel segno della condivisione e della familiarità – sia una gioia profonda, colma di umanità solidale, di legami, di solidarietà vera». Son, dunque, sarà «una locanda dove l’operosità della carità si dovrà vivere promuovendo incontri, ma anche occasioni quotidiane di amicizia. Protagoniste, le “nostre fragilità”. Non sarà un luogo dove qualcuno aiuta, ma dove insieme ci si prende cura. Anche le famiglie che vi abiteranno e chi lo frequenterà come luogo di incontro e “sollievo” si prenderanno cura insieme, aiutandosi nella gioia dell’amicizia».
Don Virginio stesso andrà lì a vivere con Davide, che ha preso in affido 36 anni fa. «Ricordo il giorno in cui è nato, ero lì con la sua giovanissima mamma. Erano gli anni in cui il cardinale Martini mi mandò a Sesto San Giovanni perché, nella comunità della Parpagliona, mi occupassi dei più deboli, dei fragili, dei sofferenti psichici. Ecco perché oggi tornare qui con Son è rigenerare un patrimonio culturale e di vita, il mio legame con la disabilità. Proprio come comunità decidemmo allora di adottare e crescere Davide».
Un rapporto quello con lui «straordinariamente impegnativo, ma vissuto con tanto affetto. Tra difficoltà e crisi mi ha fatto crescere tantissimo anche come prete». Oggi è Davide che si sente in dovere di ricambiare: «Ringrazierò per tutta la vita don Virginio che sin da piccolo mi ha sempre sostenuto facendo tantissimi sacrifici per me, più di un papà. Mi sento fortunato perché il suo volermi bene è infinito; adesso voglio stargli vicino perché l’età avanza, prendermi cura di lui come lui ha fatto con me».
Per Davide Son è «un sogno grandissimo che si realizza. Venendo ad abitare qui con altre famiglie riusciremo a costruire un rapporto di fiducia reciproca importante; è bello viaggiare sui volti della conoscenza: si incontrano persone nuove o rivedi chi già conosci. Il mio desiderio oggi è di aiutare gli altri». Al “dopo di noi” non vuole pensare: «Sarà una sofferenza immensa, ma sono certo che dal cielo mi guarderà e continuerà a sorridere di questo progetto e della Casa della Carità. Lì ha costruito 20 anni di affetti, sguardi, passione: vent’anni di casa».
Per don Virginio «questo è il tempo delle tenerezza, della sofferenza che ti chiede di aver bisogno degli altri. In questo luogo e in questo tempo faremo anche una grande battaglia sui diritti dei disabili».